lunedì 21 dicembre 2015

Un racconto di Natale



Per tutto il viaggio il bambino non disse una parola. Alzò la testa dal tablet solo quando intorno i prati si fecero bianchi, i tetti più aguzzi, e lingue di freddo iniziarono a penetrare dagli interstizi delle portiere. Allora chiese a suo padre se avrebbe acceso un fuoco.
La casa aveva un volto di pietra e legno scuro, e ghiaccio ai bordi delle imposte chiuse da mesi. Dietro incombeva la montagna, abeti che salivano fino alle nubi. Il bambino scese dall’auto. Nel silenzio che precede ogni tempesta, riusciva a distinguere le pulsazioni del proprio sangue.
La sorellina corse verso le porte di noce che i genitori avevano già spalancato. Il bambino esitò sulla soglia, odorò l’oscurità della casa: fuliggine, sottobosco, pagine di un libro dimenticato in cantina, una storia che nessuno aveva più letto da chissà quanto tempo.
Il padre e la madre fecero luce in cucina, riattivarono l’elettricità, lasciarono scorrere dal rubinetto l’acqua scarlatta. Mentre sua sorella correva in giro con le braccia spalancate, il bambino entrò nella penombra del salotto. Seduto sull’orlo del divano, sul lenzuolo impastato di polvere e umidità, rimase a guardare la parete rivestita di legno, le chiazze chiare lasciate dai trofei scomparsi. Giornali stampati prima della sua nascita si accumulavano sotto il caminetto. Fu allora che sentì i primi fremiti.
«C’è un rumore» disse poco dopo, sulla porta della camera dei genitori. Sua madre era china sulla valigia da disfare, e non si voltò nemmeno per rispondergli. Perché il bambino lo sapeva già: la casa parlava. Il nonno l’aveva costruita a sua immagine – entrambi si lamentavano quando cambiava il tempo. La voce della casa era fatta di cigolii e ululati, di notti in cui le pareti gorgogliavano come stomaci, di solai che scricchiolavano sotto passi invisibili. Ma non c’era nessun fantasma, niente di cui avere paura.
Il bambino si sentì grande per questo genere di spiegazione. E poi il rumore del camino era diverso. Scese a raccontarlo a suo padre, che stava spruzzando l’antigelo sui vetri della macchina. L’uomo parlò del vento, del coperchio della canna fumaria che forse era rimasto aperto. Si era alzata un’aria da curvare i pini. Il bambino rabbrividì, eppure non tornò dentro, né il padre si decise a controllare il salotto, fino a quando la sorellina non uscì ridendo.
«Babbo Natale è arrivato prima. Si è incastrato dentro il camino.»
Padre e figlio si scambiarono un’occhiata.
La bocca del caminetto non era mai stata chiusa da un parascintille; sul fondo di mattoni sbiancati dal calore, il nerofumo aveva disegnato un imbuto rovesciato che saliva verso il buio. Il padre tenne i bambini a distanza, tutti e tre rimasero in ascolto. Quando la madre entrò alle loro spalle e li vide immobili, come ipnotizzati, capì che qualcosa non andava. Il bambino le fece cenno di stare in silenzio: anche lei doveva sentire. In principio fu solo il vento tra gli alberi, il tremito di qualche tegola, forse di un’imposta al piano di sopra. Poi iniziarono i fruscii, sempre più forti, e un pugno di cenere cadde giù dalla canna fumaria.
«Che cos’è?» chiese la madre.
Il padre non lo sapeva. Disse ai bambini di stare lontani, e sparì verso la cantina. Ora la sorellina non sorrideva più, e la madre le disse di venire da lei. Il suono era quello di un ventilatore occluso, pale che sbattono avanti e indietro senza riuscire a girare. Ma avvicinandosi, il bambino riuscì a distinguere i gemiti. Posò le mani sul marmo del basamento, trattenne il fiato mentre spingeva la testa dentro l’oscurità. Lentamente, sollevò lo sguardo.
Si rese conto di non essere mai stato così vicino alla canna fumaria. Non era come nelle storie, nei vecchi film, dove attraverso i comignoli si scende a portare regali, si esce a ballare sui tetti. Nella realtà il condotto puzzava di cenere, ed era troppo stretto perché chiunque, qualunque cosa viva, potesse attraversarlo. Eppure per un istante, prima che suo padre lo afferrasse per il braccio e lo scostasse di forza, il bambino riuscì a vedere lo scintillio giallo dell’occhio.
«Ti avevo detto di stare indietro.» Il padre era tornato con un paio di guanti, occhiali da lavoro, una torcia elettrica.
«È Babbo Natale?» chiese la bambina, tra le braccia della mamma.
«Non è niente» si affrettò a rispondere suo padre, la testa infilata nel condotto.
«Una civetta» disse il bambino.
Cos’è una cibetta? Come c’è entrata in casa? Perché è dentro il camino? Perché si è incastrata? Da quanto tempo è lì? Come si fa a farla uscire? E se non esce, come fa Babbo Natale a scendere e a portare i regali? Le domande della bambina sembravano non finire mai, e non a tutte c’era una risposta. Intanto la madre aveva steso a terra un lenzuolo che presto iniziò a punteggiarsi di fuliggine e crosticine nere, mentre il padre allungava il braccio su per la canna fumaria.
«È troppo in alto» disse tra i denti. Sedette sull’orlo del basamento, si tolse gli occhiali e riprese fiato. Il bambino sentì che aveva sudato. Fece per prendere la torcia, ma il padre gli fermò la mano.
«Non ho paura» disse il bambino. Illuminata, vista dall’interno, la cappa era il ventre di una piramide nera, aguzza, linee che convergevano verso l’imboccatura della canna fumaria. Là il bambino riuscì a vedere gli artigli, un’ala, un occhio giallo e spalancato. Quando la luce la colpì, la civetta prese a dimenarsi. La fuliggine scese fino al bambino, che tossì e dovette tirarsi indietro. Quando si strofinò gli occhi, una lacrima grigia gli rigò la guancia.
«Vuole salire, non capisce che deve scendere. Più cerca di liberarsi, più si incastra» spiegò il padre, a mezza voce, in modo che solo il bambino potesse sentire.
«Anch’io voglio vedere» disse la bambina.
«La vedrai quando la liberiamo» rispose il padre.
Intanto la madre era tornata con una scopa che si allungava come un telescopio, quella che usava per togliere le ragnatele dai soffitti. Di nuovo i bambini dovettero allontanarsi, mentre il padre e la madre provavano il nuovo strumento. Ma appena vide la civetta alla luce della torcia, la donna si ritrasse e disse che non ce la faceva. Lo ripeté due o tre volte, senza prendere fiato. Il bambino ricordò quello che sua madre pensava degli animali in gabbia, e capì che si stava sforzando di non piangere davanti a sua figlia.
Allora fu lui reggere la torcia, mentre il padre manovrava il manico di scopa dentro la canna fumaria. Il battito d’ali si fece più forte, il grido più acuto, quando la civetta si sentì toccare dalla punta del bastone.
«Basta! Le fai male!» disse il bambino.
Il padre non rispose, anzi continuò con più forza, mentre la bocca del camino vomitava nuvole nere sempre più pesanti. Il bambino vide piovere delle gocce dense. Prima che suo padre potesse fermarlo, allungò un dito fino al sangue.
«È ferita!»
La madre cercò di portare la bambina di sopra, ma quella si lanciò di corsa verso il giardino. Una folata gelida investì padre e figlio. L’uomo scosse la testa. La canna fumaria era stata costruita al centro della casa, in modo da riscaldare tutte le stanze di entrambi i piani. Ma quel giorno, quella notte, non ci sarebbe stato niente da distribuire equamente, se non l’eco di un’agonia. Il bambino capì che la civetta avrebbe seguitato a sbattere le ali, che non avrebbe mai smesso fino alla liberazione o alla morte.
«Saliamo sul tetto. Spingiamola giù dall’alto» disse il bambino.
L’uomo andò alla finestra e scostò la tenda. La neve e la sera stavano già calando. Senza dubbio le tegole erano già ghiacciate. Impossibile salire là sopra senza rompersi l’osso del collo.
La porta d’ingresso sbatté di nuovo. La bambina aveva tra le braccia due pezzi di legno sporchi di muschio e di neve; prima che la madre potesse fermarla, corse a gettarli nel camino.
«Accendi il fuoco, papà. Così la cibetta si brucia e Babbo Natale può scendere con i regali.»
La madre portò la bambina a sistemare la cameretta. Il padre sfogliò l’agenda ingiallita di un anno che il bambino non poteva ricordare; il numero dello spazzacamino era là. Ma naturalmente il telefono suonò a vuoto: nessuno avrebbe risposto, nessuno sarebbe venuto ad aiutarli, non la viglia di Natale.
Il bambino sedeva in disparte, guardava fisso a terra, e tutto quello che riusciva a sentire era il suono interminabile delle ali che sbattevano, del becco e degli artigli che graffiavano contro le pareti della canna fumaria. E a quanto pare non era l’unico, perché presto la madre scese di nuovo, con la bambina in braccio che piangeva piano, e disse che ora il rumore si sentiva fortissimo anche di sopra – come se fosse colpa loro – e che non potevano stare lì, senza fare niente, mentre un animale…
Benché fosse ancora molto presto, decisero di scendere in paese, di cenare nell’unico ristorante. In macchina, la bambina si addormentò quasi subito sul seggiolino. Il padre e la madre guardavano il bambino attraverso lo specchietto, si sforzavano di parlargli della jeep radiocomandata che aveva chiesto per Natale, di feste e scampagnate dei giorni a venire. Lui non rispondeva. Presto calò un silenzio rotto soltanto dall’ululare del vento tra i rami, da certi suoni che il bambino continuava a sentire nella testa.
Il buio e la neve erano fitti, e l’auto procedeva a passo d’uomo giù per la mulattiera. Stavano attraversando il bosco quando incrociarono il pick-up di un uomo che conoscevano, il vecchio che noleggiava sci giù in paese. Ci furono dei colpi di clacson, dei cenni dal finestrino. Entrambe le auto si fermarono, e il bambino vide suo padre attraversare la tormenta per avvicinarsi al vecchio. I due parlarono fitto per qualche minuto, poi il padre tornò in macchina e si sfilò il cappello già mezzo imbiancato.
«Dobbiamo tornare indietro. La strada è chiusa.»
Davanti alla porta di casa, al bambino sembrò che sua madre esitasse, che cercasse le chiavi più a lungo del necessario. Forse anche lei sperava che, oltre l’uscio, avrebbero trovato i divani pieni di piume e di fuliggine e la civetta che sbatteva contro il soffitto, arruffata ma libera, viva. Ma in salotto li aspettava ancora il battito d’ali, più forte di prima, come i palpiti di un cuore in affanno.
Per quell’anno fu deciso di preparare l’albero di Natale in cucina. La bambina iniziò ad appendere gli addobbi mentre il padre si dedicava alla cena. La madre chiuse la porta del salotto e attaccò un disco natalizio della sua infanzia. Fu allora che il bambino uscì dalla stanza. Il padre voleva seguirlo, ma la madre gli disse di lasciarlo andare.

Quando si svegliò, il vento aveva smesso di soffiare, e la casa non scricchiolava, non gemeva, non cigolava più. Il bambino accese la luce sul comodino e si alzò a sedere. La sua cameretta gli sembrò così piccola… Qualcuno gli aveva infilato il pigiama e rimboccato le coperte. Accese il tablet per guardare l’ora: notte fonda. Raggiunse la porta, e stava per uscire, per scendere le scale in silenzio, per vedere se davvero c’era mai stata una civetta nel camino – quando sentì i fremiti.
Il battito d’ali s’era fatto stanco, tanto che il bambino dovette appoggiare l’orecchio al muro per sentirlo bene. La civetta emetteva un lamento diverso, fatto di versi interminabili, ora bassi, ora acuti, intervallati da singoli istanti di silenzio. Sembrava un canto di chiesa, un messaggio rivolto a un ascoltatore lontano, del tutto ipotetico. Il bambino cadde in ginocchio con un tonfo. Subito, nella stanza accanto, la sorellina si svegliò strillando.
Il bambino sentì che sua madre si alzava, raggiungeva la bambina, le cantava una ninna-nanna che falliva nel sovrastare il pianto della civetta. Poco dopo la madre e il padre ebbero una discussione; il bambino non poteva distinguere le parole, ma era certo che entrambi si stessero trattenendo dall’urlare. Ci furono poi altri passi sul pavimento del corridoio e giù per le scale – questa volta più pesanti, suo padre, senz’altro.
Certo che per quella notte non avrebbe più dormito, il bambino aprì la cassa dei giochi. Non leggeva il libro di Tom & Jerry dall’estate precedente, eppure lo ricordava ancora a memoria. Il gatto infilava una zampa nella tana del topo senza riuscire a raggiungerlo; anzi, si ritrovava in pugno un candelotto di dinamite. Allora piazzava una trappola davanti alla porticina, e aspettava che il topo uscisse da solo. Il bambino chiuse il libro e si infilò le ciabatte.
Intanto il padre era sceso in cantina. Dietro una porta chiusa a chiave c’era un armadio di metallo. In quello sgabuzzino cieco, sotto una lampadina nuda, facevano la polvere le teste di daino che sua moglie aveva tolto dal salotto. L’uomo sedette all’unico sgabello e fumò lungamente. Là sotto c’era silenzio: la voce della casa, i lamenti della civetta non penetravano nel sottosuolo. Dopo qualche tempo il padre schiacciò la sigaretta a terra e aprì l’armadietto dei fucili.
Appena risalì in cucina si accorse che qualcosa era cambiato. Sul tavolo, il piatto col panettone che la bambina aveva lasciato per Babbo Natale era vuoto, i doni sotto l’albero in disordine. Trovò la jeep radiocomandata di suo figlio rovesciata a terra, la carta regalo stracciata, lo scatolone sparito. Imbracciò il fucile con più forza mentre si avviava verso il salotto.
Ora il battito delle ali era quasi scomparso, e la litania della civetta era ancora più lenta. La stanza era buia, tranne per un bagliore che veniva dal caminetto, tre lame di luce dorata che disegnavano un parallelepipedo scuro. Appena i suoi occhi si furono abituati all’oscurità, il padre distinse lo scatolone della jeep, spalancato all’imboccatura del camino; dentro dovevano esserci la torcia, la fetta di panettone, come in una trappola. E di fronte stava il bambino, in piedi, in silenzio, a pugni stretti. Sembrava brillare di luce propria. E il padre non riuscì a fare altro che a chiamarlo per nome, come se si fosse allontanato oltre il limite della sua vista.
Il bambino si voltò e gli fece cenno di tacere. I suoi occhi si posarono sul fucile, e in principio non capì. Poi ricordò un film in cui un cowboy ferito pregava un amico di aiutarlo a morire – una scena che l’aveva sorpreso. Allora suo padre gli aveva spiegato che quell’uomo sapeva di non avere scampo, e soffriva così tanto da preferire una fine veloce, una pallottola nel cuore. Questo il bambino lo capiva, o immaginava di capirlo. Ma subito dopo il colpo di pistola partiva davvero. E allora il bambino si era chiesto se quello che aveva premuto il grilletto era proprio un amico del cowboy, oppure un assassino.
L’uomo, pieno di vergogna, abbassò il fucile e lo posò sul tavolino. Padre e figlio rimasero l’uno di fronte all’altro, a qualche passo di distanza, disarmati, senza dire niente, senza fare altro che guardarsi negli occhi e aspettare. La civetta aveva smesso di dimenarsi, ma continuava a piangere. Lanciò un acuto che sembrò salire fino al termine della notte. Fu l’ultimo.
Il bambino sentì i pugni sciogliersi, le braccia cadergli lungo i fianchi. Chiuse gli occhi. Suo padre lo abbracciò forte e cercò di sollevarlo tra le braccia, ma lui non volle. Insieme diedero le spalle al camino e si avviarono verso le scale. Per la prima volta da quand’erano arrivati, tutto taceva. E poi la casa parlò con una voce di tuono, e fu come se avesse deglutito un boccone che a lungo le era rimasto in gola.
Il bambino si voltò sulle scale. Ora la cenere danzava nella luce della torcia, dentro lo scatolone si agitava un’ombra cinese. Venne di nuovo il battere d’ali, questa volta contro le pareti di cartone, che tremavano. Il padre e il figlio corsero insieme verso la scatola.
Al piano di sopra, la bambina si era addormentata di nuovo tra le braccia della madre. Senza smettere di cullarla, la donna andò verso la finestra. Fuori le nuvole avevano lasciato spazio a una quantità di stelle, e la distesa bianca davanti alla casa rifletteva il bagliore del cielo. Il padre e il figlio affondavano nella neve vergine fin sopra la caviglia, fino al ginocchio, lasciandosi dietro una scia di orme. La donna vide che trasportavano una scatola che aveva la luce dentro.
La posarono a terra, a qualche distanza dalla casa. Vibrava. Poi indietreggiarono di tre o quattro passi. Il bambino diede uno strattone allo spago, e la scatola si aprì lasciando salire una colonna dorata. Un’ombra dalle ali spalancate si alzò nella luce, volò su, scartando a destra e a sinistra, come per schivare qualche ostacolo nell’aria. Ma non c’era più niente a fermarla, e presto la civetta si allontanò verso il bosco.
Padre e figlio aspettarono fino a che il battito delle ali, ritmico come un respiro, sparì nell’oscurità. Illuminato dal basso, il volto del bambino sembrava quello di una statua d’oro, un antico guardiano della notte. Il padre si accorse che stava tremando. Raccolse la torcia e lo scatolone vuoto, e insieme tornarono verso la casa.
Giù nella valle, una campana rintoccava la mezzanotte, quando dal caminetto iniziò a salire del fumo bianco. La finestra al pianterreno si accese di un bagliore tremulo e caldo. Fino ai confini dei boschi e alle cime delle montagne, fin dove l’occhio poteva vedere, era l’unica luce al di sotto delle stelle.

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