lunedì 21 dicembre 2015

Un racconto di Natale



Per tutto il viaggio il bambino non disse una parola. Alzò la testa dal tablet solo quando intorno i prati si fecero bianchi, i tetti più aguzzi, e lingue di freddo iniziarono a penetrare dagli interstizi delle portiere. Allora chiese a suo padre se avrebbe acceso un fuoco.
La casa aveva un volto di pietra e legno scuro, e ghiaccio ai bordi delle imposte chiuse da mesi. Dietro incombeva la montagna, abeti che salivano fino alle nubi. Il bambino scese dall’auto. Nel silenzio che precede ogni tempesta, riusciva a distinguere le pulsazioni del proprio sangue.
La sorellina corse verso le porte di noce che i genitori avevano già spalancato. Il bambino esitò sulla soglia, odorò l’oscurità della casa: fuliggine, sottobosco, pagine di un libro dimenticato in cantina, una storia che nessuno aveva più letto da chissà quanto tempo.
Il padre e la madre fecero luce in cucina, riattivarono l’elettricità, lasciarono scorrere dal rubinetto l’acqua scarlatta. Mentre sua sorella correva in giro con le braccia spalancate, il bambino entrò nella penombra del salotto. Seduto sull’orlo del divano, sul lenzuolo impastato di polvere e umidità, rimase a guardare la parete rivestita di legno, le chiazze chiare lasciate dai trofei scomparsi. Giornali stampati prima della sua nascita si accumulavano sotto il caminetto. Fu allora che sentì i primi fremiti.

lunedì 12 gennaio 2015

Dieci motivi per guardare i film in lingua originale




Se amate i film e le serie TV, dovreste considerare la possibilità di guardarli nella lingua in cui sono stati girati. Ecco perché:
  1. È la lingua in cui gli attori recitano. Se davvero preferite che dal corpo di qualcuno fuoriesca la voce di qualcun altro, forse avete bisogno di un esorcismo;

venerdì 31 ottobre 2014

Premio Tonino Guerra



Stefano Lazzati, Luca Vassalini e io abbiamo vinto il premio Tonino Guerra alla sceneggiatura originale e inedita del San Marino International Film Festival. La nostra sceneggiatura si intitola Il futuro.

mercoledì 19 febbraio 2014

"Inside Llewyn Davis", di Joel ed Ethan Coen


A proposito di questo film ho letto diverse recensioni anche autorevoli, di solito entusiastiche, e tutte parimenti superficiali. In generale vi si dice che questa è la storia di un musicista che non riesce a sfondare perché non ha abbastanza talento, oppure perché non è originale e interpreta solo canzoni scritte da altri (!), o ancora, perché rifiuta di suonare brani commerciali. Il che mi sembra una banalizzazione, se non proprio un equivoco. Come sempre nel cinema dei Coen, ogni personaggio, ogni situazione, ogni battuta ha almeno un secondo livello di lettura. Ecco, questo film non parla veramente di musica.

Certo, Llewyn desidera suonare in locali importanti, vendere molte copie del suo album, essere riconosciuto come un professionista – in una parola, desidera il successo. Ma è di questo che ha bisogno?

Llewyn è un uomo adulto che dorme a scrocco sui divani degli altri, perché non ha una casa dove tornare. Ha avuto una relazione con la ragazza di un suo amico, perché non ha nessuno che lo ami. Del resto anche la ragazza del suo amico lo odia: l'avventura è nata morta, è finita – letterlmente – in un aborto. Llewyn dunque non fa altro che vagare senza meta, come un Ulisse senza un’Itaca a cui tornare. Cosa c’è che non va in lui? È Bud Grossman, l’impresario di Chicago, a rivelarglielo, dopo aver bocciato la sua audizione. Llewyn non va bene, gli manca la caratteristica fondamentale di un cantante come Troy Nelsn – che abbiamo conosciuto in precedenza: «He connects to people».

Durante il suo viaggio da New York, Llewyn ha conosciuto il jazzista Roland Turner (John Goodman); un uomo incapace di ascoltare e rispettare gli altri, uno che insulta l’ex partner di Llewyn perché si è suicidato buttandosi dal ponte sbagliato. Turner è insopportabile, ma è poi tanto diverso da Llewyn? Pensiamo alla scena in casa della sorella. Llewyn ha mostrato riguardo per lei, solidarietà per il padre all’ospizio? Llewyn è uno che non vuole entrare a far parte di un gruppo, nemmeno quando gli viene offerto come alternativa alla miseria; non rispetta gli altri artisti che dividono il suo palco, tanto che non si accorge che tra loro c’è il giovane Bob Dylan! Non deve rispettare molto neanche l'unico amico che gli dà ospitalità e offre un lavoro, dato che è andato a letto con la sua fidanzata...

Ho letto in almeno una recensione che “la sorte si accanisce contro Llewyn”. Direi piuttosto che è lui a fare tutto da solo. La “sorte”, casomai, gli mette davanti una possibilità di redenzione. Llewyn scopre di avere un figlio da una precedente relazione: da qualche parte, allora, c’è un’Itaca, c’è una Penelope che forse lo aspetta ancora, un Telemaco che ormai cammina sulle sue gambe. Al ritorno da Chicago, Llewyn si trova davanti a un bivio: può tornare a New York, il posto dove tutto e cominciato e dove tutto continuerà ad andare come prima – cioè male. Oppure può imboccare la via di Itaca. Llewyn è combattuto. In un film di Frank Capra o di Steven Spielberg, Llewyn finirebbe per scegliere Itaca, affronterebbe i Proci, e infine riconquisterebbe la sua Penelope. Ma i Coen possono permettersi di mostrarci un protagonista che non riesce a cambiare, e prosegue sulla strada per New York. Poco dopo, il gatto che dall’inizio della storia l’ha costretto al movimento – il gatto, l’animale del diavolo, l’Antagonista – muore investito dallo stesso Llewyn. Di qui in avanti è solo una discesa nell’inferno dei morti viventi.

Uno di questi zombie Llewyn l’ha già incontrato: Turner, il personaggio di John Goodman, la grossa larva che se ne sta sul sedile posteriore, quasi sempre immersa in un sonno profondo. Abbandonato nella sua auto a Chicago, non è chiaro se Turner sia vivo o morto. Non importa a nessuno. Ma Llewyn non sa cogliere questo monito, almeno fino a che, tornato a New York, non visita il padre. Parcheggiato in una camera d’ospizio, il vecchio è ormai ridotto a un vegetale incontinente. «Good to see what I have to look forward to», nota Llewyn con sarcasmo. Ora ha capito quale sarà la sua fine. Più tardi assiste alla performance dei quattro irlandesi che cantano "The Auld Triangle" – il testo parla di un carcerato condannato a morte, un dead man walking. Infine – tornato alla sua condizione iniziale – Llewyn viene preso a calci da uno sconosciuto. A questo punto, la nostra reazione è: «se l’è meritato».

Io amo i fratelli Coen, e per me questo è uno dei loro film più profondi, complessi, maturi.

mercoledì 18 dicembre 2013

Elegia per un treno che odiavo



Dal quindici dicembre l’interregionale Milano-Venezia non esiste più. Negli anni avevo imparato a evitarlo, e nonostante tutto lo conoscevo fino alla nausea. La prima volta che ci sono salito il prezzo del biglietto aveva ancora una sola cifra, e gli interni, gli schienali spigolosi di gomma, la strana tappezzeria incollata sulla parete di fondo del vagone, mi sembravano l’opera improvvisata di un tossicomane. 

Poi, un viaggio dopo l’altro, l’odore di plastica arroventata nei vagoni, i cigolii sinistri degli interstizi tra le carrozze, i cessi poco raccomandabili quando non proprio fuori servizio, i neon che si spegnevano, a tratti, nella notte – tutto questo mi è diventato familiare come una deformità del mio stesso corpo, un male che, di tanto in tanto, torna a far sentire i suoi sintomi, senza dar segno di peggiorare, né di guarire. In seguito la malattia si è rivelata degenerativa, terminale, indotta da medici che perseguivano la morte del paziente.

D’inverno il calore saliva da un tubo d’acciaio squadrato sul quale, sedendo al finestrino, si potevano appoggiare i piedi; d’estate soffiava a volte un’aria condizionata gelida e carica di umidità, ma più spesso le tende lacere sbattevano fuori dai finestrini spalancati. 

Ho visto la neve e la pioggia filtrare dal soffitto, le rastrelliere cariche di bagagli enormi e misteriosi, la nebbia stendersi oltre i finestrini durante soste inspiegabili nel bel mezzo della campagna. Una volta, poco lontano da Brescia, il treno si è fermato proprio davanti a un locomotore in fiamme, e il vento ci ha spinto addosso la colonna di fumo nero. A Peschiera dei ragazzini che tornavano da Gardaland mi hanno deriso perché leggevo un libro troppo voluminoso. A Treviglio una specie di gigante malato mi si è seduto accanto ed è piombato subito in un sonno profondo, scosso ma non interrotto da colpi di tosse via via più preoccupanti. Un’altra volta ho incontrato una famiglia di neri voluminosi, bardati di collane, turbanti e caffetani elaborati. La matrona sembrava la regina di una tribù lontana, si faceva aria con un ventaglio colorato, sedeva sul seggiolino reclinabile. È scesa a Brescia, come tanti africani.

Sull’interregionale non ho mai conosciuto una bella ragazza o un assassino, né ho assistito a una rapina o un deragliamento – nessuna delle cose, insomma, che capitano nei film. La massima parte di quei viaggi l’ho passata da solo, a leggere in silenzio. Con buona approssimazione potrei dire di non aver mai rivolto la parola a nessuno, tranne le frasi di circostanza al controllore, quando questi riusciva a farsi largo tra la calca. Per molte ore sono rimasto senza un posto a sedere, con l’unico conforto della valigia a farmi da poltrona. Ogni volta che passavo davanti al lago di Garda provavo l’impulso di scendere, buttare nell’acqua il telefono e i documenti, e scomparire senza lasciare traccia né messaggi. Ma in un modo o nell’altro, per motivi che a volte fatico a spiegarmi, ho sempre continuato il viaggio, sempre sono arrivato a destinazione. 

Mi chiedo ora dove finiranno i convogli: saranno abbandonati su binari morti periferici, destinati al tiro a segno e all’occupazione temporanea, alla ruggine e all’incendio doloso? Oppure saranno dirottati su altre tratte, e continueranno la loro corsa fino allo stremo, alla polverizzazione?

L’agonia dell’interregionale è stata artificiale e lungamente pianificata: biglietti sempre più cari, corse via via più rade e perciò ancora più sovraffollate, obliteratrici fuori servizio, ritardi programmatici, addirittura incentivati dal denaro pubblico. La tela dei sedili era ormai lisa, annerita dal sudore rancido. Già da molto tempo chi aveva scelta era fuggito verso le cosiddette Frecce, pagando il doppio o il triplo per un treno che trasporta meno immigrati, che a volte arriva in orario e sul quale, occasionalmente, perfino il wi-fi e le prese i corrente sembrano funzionare. Il servizio pubblico è stato lasciato putrefare prima ancora della sepoltura, ma in compenso abbiamo la tessera per gli sconti e la raccolta punti. Ben presto potremo averne due o perfino tre di società diverse, e viaggeremo liberi e ticketless verso il migliore dei mondi possibili.

giovedì 7 febbraio 2013

Un racconto su Linus

Su Linus di questo mese trovate il mio racconto "Acqua". Con una nota di Raul Montanari e una enne di troppo nel mio cognome.


giovedì 1 novembre 2012

Michelangelo – Il cuore e la pietra


Michelangelo – Il cuore e la pietra è un docu-drama sulla vita di Michelangelo Buonarroti. Con Rutger Hauer, Massimo Odierna e Giancarlo Giannini. La regia è di Giacomo Gatti, la fotografia di Marco Sgorbati; io ho scritto la sceneggiatura. Va in onda questa sera alle 21.10, in prima visione su Sky Arte. Il video soprastante è del tutto irrelato.